Care compagne, cari compagni,
gentili Ospiti,
inizio il dodicesimo congresso della Cgil di Basilicata con un pensiero rivolto a tutte le lavoratrici e i lavoratori che, ogni giorno, con impegno e sacrifici contribuiscono a rendere vivo questo nostro territorio.
E in particolare ai lavoratori precari, ai disoccupati, a quanti hanno perso il lavoro espulsi dai cicli produttivi per effetto della crisi.

Un caro saluto di benvenuto a Enrico e Carmine e alle rispettive delegazioni di CISL e UIL.
Un ringraziamento particolare al nostro Segretario nazionale Roberto Ghiselli, per il prezioso lavoro di tessitura fatto nella costruzione di una piattaforma unitaria sulle pensioni. Un lavoro svolto con grande competenza e serietà.

Lo ringrazio per essere presente alla conclusione del percorso congressuale della CGIL Basilicata, un percorso di grande discussione e confronto, fortemente partecipato dai nostri 63.000 iscritti: 383 assemblee nelle quali sono stati votati i Documenti Congressuali, 26.796 voti per il documento il “Lavoro è” e 191 per il Documento “Riconquistiamo tutto”.
Contesto

Ci accingiamo a completare il nostro percorso congressuale dentro uno scenario internazionale e nazionale tra i più inediti e dentro stravolgimenti epocali in cui si stanno rideterminando nuovi equilibri politici ed economici segnati da una destra populista e reazionaria che sta assumendo il governo di larghe aeree del mondo e della stessa Europa.

Questo è il frutto amaro di un arretramento culturale, sociale, democratico in cui vengono cancellati anni di lotte e conquiste sul fronte dei diritti civili e sociali, ma è soprattutto il risultato della crescita delle diseguaglianze nel mondo e in Italia.
La diseguaglianza infatti, non è uno sgradevole effetto della crisi di cui provare a mitigare gli effetti, ma è causa e presupposto della crisi.

Da una cattiva distribuzione della ricchezza e da un diverso livello di accesso ai diritti nel mondo e in Italia nasce e si sviluppa la crisi. Senza un riequilibrio di ricchezze e diritti, senza una reale inclusione di chi oggi è costretto ai margini, non potrà esserci nessuna ripresa duratura.

Che questa politica non sia servita neanche a raggiungere l’obiettivo dichiarato di contenere la spesa pubblica è clamorosamente dimostrato dal caso italiano, in cui il debito pubblico ha continuato a crescere in maniera incontrollata nonostante i provvedimenti che puntavano a contenerlo: innalzamento dell’età pensionabile, forte limitazione della spesa sanitaria, blocco delle assunzioni (incluso turnover) e delle retribuzioni nel lavoro pubblico.

Alla base di queste scelte politiche neo liberiste stava la convinzione che le risorse così ottenute, una volta distribuite a un’imprenditoria illuminata, avrebbero ricreato le condizioni per una robusta e duratura ripresa dello sviluppo e dell’occupazione. Ma la realtà ha smarrito tali attese.
E per perseguire tale obiettivo l’Europa ha sottratto agli stati membri molti dei poteri di intervento.
Sarebbe stato lecito attendersi che la stessa Europa potesse assumere questi poteri contribuendo, attraverso una politica economica e fiscale unica, al passaggio dall’unione monetaria agli Stati Uniti d’Europa.

L’indebolimento dei singoli stati membri e della loro capacità di orientare le politiche economiche e sociali ha dato fiato alle destre che hanno cavalcato, sulle gambe dei neo-populismi, la necessità di intervento dello stato su alcune questioni fondamentali.

Si è così determinato il paradosso che a una domanda di intervento pubblico - che è tradizionalmente una risposta di sinistra e progressista - è arrivata una risposta regressiva e di destra. Trump si è affermato grazie al sostegno dei ceti popolari colpiti dalla crisi.

Così come appare esemplare il moltiplicarsi, in tutta Europa, delle varie destre nazionaliste, sovraniste, xenofobe e razziste che – si pensi al caso dell’Ungheria e del cosiddetto gruppo di Visegrad – minacciano l’integrità dell’Unione Europea e tendono a porre sotto il controllo dell’esecutivo le più elementari conquiste di libertà democratiche, aggredendo l’autonomia degli altri poteri costituzionali (da quello legislativo, a quello giudiziario, alla libera informazione).

E sulla libertà di informazione voglio rivolgere tutta la nostra solidarietà al mondo dell’informazione, oggetto di una gravissima aggressione da parte di alcuni rappresentanti del governo. Un attacco senza precedenti alla libertà di informazione, cardine fondamentale di una società democratica.

Il successo dei sovranisti di casa nostra si colloca in questa scia.

Se Trump scommette su un consenso fondato sulle paure dei “bianchi” che si sentono minacciati dall’esodo di qualche migliaio di immigrati dell’America Latina, i sovranisti di casa nostra, vincitori delle ultime elezioni, agitano lo spettro di una inesistente invasione di migranti, che può prendere forma solo gettando benzina sul fuoco del pregiudizio e della disinformazione sapientemente pilotati soprattutto nei meandri delle rete e dei social media.

Ci troviamo dinanzi a un nuovo ordine mondiale nel quale gli Usa di Trump si sono svincolati dall’Europa e hanno abbandonato il multilateralismo, hanno ritrattato gli accordi di Parigi sul clima e il patto sulla non proliferazione nucleare iraniana, dentro una scelta politica protezionistica. La Cina ha assunto il ruolo di difensore del libero scambio e la Russia ha riacquisito un ruolo come potenza militare ma soprattutto nel controllo delle fonti energetiche.

Di quale risposta ci sarebbe invece bisogno? Superare il liberismo europeo, non per tornare agli staterelli nazionali, ma per costruire un’Europa più inclusiva, popolare e sociale per lottare contro i populismi, per dare una risposta democratica alle inquietudini create dalla globalizzazione e dal risorgere dei nazionalismi. Per costruire società aperte, più accoglienti e coese.
Questa sarà certamente la sfida delle prossime elezioni europee. Ma soprattutto è la sfida dei nostri tempi.
“Tutto ciò che ha valore nella società umana dipende dalle opportunità di progredire che vengono accordate ad ogni individuo”, diceva Albert Einstein.

Situazione del lavoro

Una radicalizzazione di idee e opinioni è emersa dentro una crisi così profonda che ha cambiato l’ordine mondiale degli assetti politici, economici, sociali e democratici, e che trova la sua radice nel pozzo nero del capitalismo finanziario.
Dobbiamo provare a comprendere i mutamenti in atto per costruire una chiara piattaforma programmatica. Dobbiamo farlo aggredendo alla radice la causa della crisi: il diverso livello di accesso della gran parte delle persone ai diritti e al reddito.

Occorre ridurre le diseguaglianze. Ciò richiede l’individuazione di uno spazio pubblico nel quale trovino piena cittadinanza politiche di intervento pubblico in economia capaci, attraverso investimenti mirati, di guidare e indirizzare lo sviluppo sostenibile e creatore di nuova occupazione.

Va messo in campo un piano straordinario di sostegno alle infrastrutture materiali e immateriali senza le quali non c’è futuro per l’Italia. Ma non c’è nemmeno presente come dimostrano i tanti eventi disastrosi che si sono susseguiti nel tempo.
E contestualmente serve un piano di intervento straordinario pubblico e privato nelle infrastrutture sociali, ipotizzando, per i prossimi anni, un investimento pari ad almeno 150 miliardi di euro all’anno.

Molta strada resta da fare per superare la politica dei Bonus del precedente governo o le proposte di sviluppo contenute nell’ultima Legge di Bilancio.

Basti pensare che la sola politica dei bonus, dagli 80 euro a quelli per le assunzioni, dal jobs act per passare ai vari altri bonus, è costata oltre 20 miliardi di euro e, secondo l’ultimo rapporto Istat che somma finalmente il totale dei disoccupati con gli inoccupati, il totale di chi in Italia non ha lavoro è pari al 20%. Altro che trionfalismi sulla diminuzione della disoccupazione cui pure l’attuale Governo si è, nelle scorse settimane, lasciato andare.

Se avessimo utilizzato quelle risorse per difendere ed estendere il welfare e per la manutenzione del territorio, delle scuole e degli ospedali, avremmo ottenuto risultati di crescita del Pil e dell’occupazione ben più stabili e duraturi.

Se si ha poca acqua per annaffiare un giardino è inutile distribuirla a pioggia. Sarà necessario scegliere quali piante conviene far germogliare e crescere.
È indispensabile recuperare sguardo lungo e responsabilità delle scelte.

Per far questo occorre ristabilire un primato della politica nell’indirizzo dell’economia, riaffermando la centralità del ruolo pubblico nelle politiche di sviluppo, per la crescita dell’occupazione, della qualità del sistema produttivo e infrastrutturale, per un diverso modello di sviluppo fondato su innovazione e qualità ambientale.

 

 

Innovazione

Abbiamo dinanzi a noi sfide difficili per il futuro del lavoro. Il mondo sta ridefinendo i propri assetti geoeconomici e le collocazioni delle catene del valore con una forza che non si vedeva dalla fine dei grandi conflitti mondiali, eppure il dibattito politico italiano non pare all’altezza delle sfide che sono in campo.
Quale collocazione, quale modello di specializzazione si vuole imprimere al nostro paese? Quale futuro vogliamo?

Una delle risposte più decisive passa per la capacità di innovazione, per gli investimenti sulla formazione continua, per la difesa e l’allargamento del welfare, per il rafforzamento della partecipazione. Sono i terreni su cui puntare per cogliere le opportunità positive di Industria 4.0 e per smussare i contraccolpi negativi e i rischi in termini di esclusione.

Abbiamo alle spalle tre rivoluzioni industriali per due delle quali le definizioni sono oramai consolidate, sulla terza, nonostante alcune incertezze, si può affermare che gli elementi caratterizzanti sono rappresentati dal computer e dal container che consentono un rapido accesso alle merci in tutto il mondo.
Computer e container, produzione e logistica appunto, un modello che è stato egemone per oltre 20 anni.

Questo modello ha però fondato la sua forza sulla prima globalizzazione, quella che ha inseguito la competitività non sul “valore” ma rincorrendo i paesi a minor costo del lavoro.

Intanto però la globalizzazione è cambiata, i paesi emergenti hanno conquistato posizioni nella finanza e nei consumi, producendo anche nuove merci e prodotti a contenuto tecnologico avanzato, con profonde ricadute economiche sulla qualità e intensità degli scambi commerciali.

È in ragione di questi processi che, contrariamente a tanta retorica sulla progressiva (e per alcuni “necessaria”) riduzione della manifattura nei paesi avanzati a favore di quelli in via di sviluppo, si è assistito negli Usa e in Europa alla nascita di iniziative governative di “RINASCIMENTO INDUSTRIALE”. L’Europa si è data l’obiettivo di raggiungere il 20% di contributo dell’industria alla formazione del PIL entro il 2020.

È in questo nuovo ambito che va ripensata anche la sfida industriale.
Non si tratta di mettersi dalla parte del lavoro o delle macchine, ma di come salvare e rilanciare il lavoro nel tempo delle nuove macchine.
Siamo a un passaggio cruciale nel quale è essenziale spostare sul terreno del valore la sfida competitiva.

Gli anni già trascorsi di questa crisi certificano la nostra debolezza, abbiamo perso un quarto della capacità produttiva, posti di lavoro e investimenti.

E questo non accade certo a causa dell'innovazione, dal momento che circa i tre quarti delle imprese cessate non usavano neppure internet.
Siamo in una transizione che è appena iniziata. Questo significa che c’è il tempo per compiere scelte giuste e condivise in grado di colmare il ritardo: investimenti in innovazione, organizzazione, internalizzazione intelligente, tornando a mettere le risorse nelle imprese e non nella rendita.

Significa considerare il fattore umano, la persona che lavora, la sua creatività e responsabilità, come la prima ricchezza intangibile dell’impresa.

 

Ma bisogna farlo in fretta: non avremo più i tempi nei quali per raggiungere la propria massa critica una tecnologia impiegava decenni (68 l’auto, 50 il telefono, ecc.). Siamo passati dai 14 anni del PC, ai 7 di internet, ai due di Facebook.

Per costruire un ambiente favorevole all’innovazione non basta occuparsi solo di tecnologie. C’è bisogno anche di politiche di sostegno sociale, affrontando il tema delle competenze dei lavoratori occupati con un grande piano formativo per l’inclusione digitale.

Siamo di fronte a un passaggio nel quale il rapporto tra uomo e macchina, tra umanità e scienza, fra tecnologia e lavoro è cambiato e senza un progetto, senza un governo di questo processo, si rischia di compromettere la coesione, a partire dal tema dell'occupazione.

È questa una responsabilità storica che viene affidata alle forze sociali e politiche. È evidente che c’è bisogno di dare un nuovo valore al lavoro e all'innovazione non solo perimetrandone i confini etici, ma anche indicando i bisogni che si debbono soddisfare con l'avvento delle nuove tecnologie per definire, a partire da qui, un nuovo Compromesso Sociale.

Un Compromesso fondato sull'inclusione e non sulla discriminazione, sul Valore del Lavoro e sulla sua libertà, un Compromesso che consenta di governare gli effetti che l’innovazione e l’automazione produrranno sui livelli dell’occupazione attraverso una nuova politica degli orari di lavoro.
Sarebbe sbagliato contrapporre innovazione e protezione: le due cose vanno tenute insieme.

Siamo il paese nel quale si lavora di più: 1.750 ore annue rispetto alla media di 1500 ore annue di Francia e Germania. Se solo riportassimo la media dell’orario di lavoro a quella tedesca, si creerebbero da subito circa 3 milioni di nuovi posti di lavoro.

Il tema della riduzione e del governo dell’orario di lavoro deve essere uno dei punti principali su cui aprire la nuova stagione contrattuale. Una riduzione effettiva ma diversificata che tenga conto della tipologia di lavoro e della sua organizzazione, sapendo che la rivoluzione tecnologica e digitale crea un aumento della produttività che per noi va ridistribuita in questo modo.

Dobbiamo rimettere al centro i bisogni delle persone, cioè dare la possibilità di scegliere le modalità di gestione degli orari di lavoro e utilizzare la leva fiscale e le politiche di incentivazione per renderne sostenibile la riduzione, sapendo che riduzione dell’orario di lavoro significa dare vita a un ricambio generazionale sia nel settore pubblico che in quello privato. Significa maggiore produttività e competitività delle aziende. Significa un miglioramento dei tempi di vita e lavoro nella società.
Si tratta, per dirla con Bruno Trentin, di una strategia di “Partecipazione non subordinata”.
E Norberto Bobbio ci ricorda che “i nostri diritti non sono altro che i doveri degli altri nei nostri confronti.”

Mezzogiorno

In questo quadro di grande evoluzione del lavoro, va ricollocata la questione del Mezzogiorno, ripartendo da un nuovo pensiero meridionalista focalizzato sullo sviluppo e non su logiche assistenzialistiche.
Tutti gli indicatori fondamentali, investimenti pubblici e privati, tasso di occupazione, produzione industriale, segnalano un peggioramento complessivo della situazione del Mezzogiorno: con la chiusura dell’intervento straordinario sono cessate le politiche di investimento e di crescita.

 

Le risorse comunitarie non sono state sufficienti se, a distanza ormai di 20 anni, abbiamo potuto constatare tutti i limiti legati al loro utilizzo, non solo per responsabilità della classe dirigente meridionale, ma anche perché in molti casi sono state utilizzate non come elementi aggiuntivi di sostegno, ma come sostitutive dei ridotti trasferimenti dei fondi ordinari al sistema delle autonomie locali.

L’elemento che è mancato e che continua a mancare è la leva pubblica: la spesa continua a contrarsi e non spendiamo neanche le risorse per la coesione, europee e nazionali.

Lo sosteniamo da tempo: la strada da intraprendere è quella di un rilancio degli investimenti pubblici come leva per lo sviluppo dei territori, a partire dalla clausola del 34% dell’ordinario che il Governo si è impegnato ad applicare, e dall’uso efficace delle risorse addizionali come il Fondo Sviluppo e Coesione fermo ad appena l’1% di spesa. In una visione di coordinamento delle regioni del sud, sarebbe centrale la costituzione di un’Agenzia Nazionale per lo Sviluppo, una sorta di nuova IRI, che rifacendosi all’idea di un coordinamento unico, decida come gestire le risorse, su quali filiere investire.

La verità è che l’Italia non ha un programma e non sa che cosa deve fare di questo Mezzogiorno. Così chi può emigra verso il Nord, con un Sud destinato a essere sempre più spopolato e vecchio: 45mila studenti in meno nelle scuole del nostro Mezzogiorno, 30mila studenti maturati nel 2017 che hanno scelto di immatricolarsi nelle università del Centro-Nord.

La forbice delle diseguaglianze tra Nord e Sud è aumentata in questi anni in modo vertiginoso, anche perché si è deciso di disinvestire nell'istruzione e nella ricerca. L'opposto di ciò che sarebbe stato necessario fare.

Scuola, sanità, servizi per l’infanzia, devono diventare priorità per un sud in cui ancora decine di migliaia di ragazzi si disperdono nel percorso scolastico o emigrano forzatamente per proseguirlo; le donne subiscono pesanti disincentivi indiretti al lavoro; e, per la prima volta nella storia recente, lavorare non è sufficiente per garantirsi una condizione di vita dignitosa.

Esiste un problema specifico di scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Lo determinano, certo, aspetti culturali, ma anche la scarsa disponibilità di servizi e una cultura delle aziende poco o per nulla orientata a politiche family friendly, quando non esplicitamente discriminatoria.

La questione del lavoro femminile va affrontata con un insieme di azioni: è necessario un cambiamento di paradigma, sociale e culturale, per affidare il lavoro di cura, in tutte le sue accezioni, alle “persone” e non solo alle donne; è fondamentale mettere in atto più contrattazione sociale e territoriale, attraverso la quale rafforzare il welfare locale a sostegno delle famiglie; è fondamentale promuovere la contrattazione di genere nelle aziende, anche formando specificatamente le nostre RSU/RSA sulla materia.

Come per le donne, per i giovani e gli studenti del Sud, il contesto sociale e il reddito delle famiglie di provenienza sono ancora oggi fattori determinanti e spesso escludenti proprio perché si è privilegiata un’idea astratta di sistema universitario di eccellenze competitive, sacrificando una rete universitaria diffusa e omogenea, che rappresenta una infrastruttura fondamentale più vicina ai bisogni reali delle persone e del nostro Paese.

In questo scenario di impoverimento sociale, culturale ed economico è in atto un pericoloso ridisegno dell’Italia e dei suoi servizi pubblici fondamentali.
Nella disattenzione generale, avanza il progetto leghista dell’autonomia differenziata per garantire maggiori risorse alle regioni del nord, Lombardia e Veneto.
Una vera e propria secessione dei ricchi che nega la stessa idea di Paese solidale.
La Regione Veneto pretende maggiore autonomia e un passaggio di competenze su tutte le 23 materie oggetto di legislazione concorrente ed esclusiva dello Stato: si chiede la regionalizzazione della scuola, dell’offerta formativa e della sanità. Uno scardinamento del paese e dei diritti universali.

Mi chiedo cosa ne pensano i parlamentari del Sud che rappresentano il 34% del parlamento.

Nell’agenda politica nazionale la questione meridionale è stata soppiantata da una nuova e aggressiva “questione settentrionale”. In questo declino c’è una diretta responsabilità della classe dirigente del sud che ha perso peso e pensiero nella nuova logica di verticalizzazione della funzione politica, nella quale si è consumato anche uno svuotamento del ruolo del Parlamento.

È una democrazia verticale che rischia di assomigliare sempre più a una democrazia illiberale, che calpesta la divisione dei poteri e i principi equilibratori sanciti dalla nostra Costituzione.

Ripartire dal Mezzogiorno significa ricostruire una propria e autonoma identità capace di unire tutte le forze democratiche, sociali e anche imprenditoriali per una nuova stagione di proposta, a partire dall’attuale legge di bilancio che consegna il Sud a un futuro assistenzialistico e arretrato.

 

Il profilo della legge di bilancio che sta per essere varata dal Governo, appare infatti del tutto inadeguato. Prova a mettere qualche pezza alle ristrettezze, concedendo bonus e regalando condoni, da quello fiscale a quello edilizio, nascosti nelle pieghe di altre norme o contrabbandati per quello che non sono: “pace fiscale”.

E lo stesso accade quando si tornano a considerare politiche di precarietà del lavoro con il reinserimento dei voucher per la cui abolizione abbiamo mobilitato qualche milione di italiani. Così accade con la flat tax, una misura profondamente ingiusta: risparmio per pochi, danno per molti!

Si aumenta il debito senza alcun investimento strutturale, né per il Mezzogiorno, né per il paese.

Il tema non è infatti lo sforamento del deficit in sé, ma di come si utilizzano quelle risorse. Se fossero state destinate a un piano straordinario di investimenti per il sud, magari legato al superamento del deficit infrastrutturale, l’Europa avrebbe forse potuto esprimere un giudizio diverso.

A ciò si aggiunge il triste spettacolo sulla questione dei migranti, tema strumentalizzato per raccogliere facile consenso, promuovendo rigurgiti xenofobi e razzisti, e ridotto strumentalmente a questione di mera sicurezza.

La verità è che questo governo ha scelto la scorciatoia di individuare in migranti e politiche di accoglienza il nemico numero uno per nascondere gli infiniti problemi strutturali ed economici di questo Paese; ed è per questo che di fronte all’evidenza di un modello di integrazione possibile, come quello di Riace, si è messa in campo una violenza politica e comunicativa inaudita, attraverso l’arresto di Mimmo Lucano, la fittizia chiusura di progetti SPRAR, la criminalizzazione delle Ong.

Una vera e propria stagione di caccia alle streghe che ci rammenta i periodi più bui della storia d’Europa e del mondo. Con uno sfacciato travisamento della realtà: non sono le mafie e le collusioni con esse l’inciampo di questo paese ma, secondo il ministro degli Interni, è la disperazione della povera gente che cerca scampo da guerre, fame e persecuzioni e, mettendo a rischio la propria vita nel viaggio minaccioso fra deserto e Mediterraneo, chiede una speranza di futuro.
Hegel sosteneva che “possiamo essere liberi solo se tutti lo sono”. O si tratta di essere consapevoli, più semplicemente, come recita il titolo di un romanzo di Margaret Mazzantini, che “nessuno si salva da solo”.

Di modelli di integrazione e accoglienza per fortuna ne abbiamo diversi, ed oggi abbiamo l’onore di avere qui con noi il sindaco del comune di Ceraso, Gennaro Maione, che saluto e ringrazio e dalle cui parole più tardi ascolteremo il racconto dell’ esperienza di accoglienza sperimentata nella sua realtà.

Sulle speranze delle persone si gioca anche quando si decide di finanziare a debito, e col condono, un reddito di cittadinanza che nessuno ha ancora ben chiaro come si svilupperà.

La stessa quota 100, di cui bisognerà capire l’effettiva struttura, è un'altra operazione di propaganda: un ritocco alla Fornero che non ne sana le principali storture legate al riconoscimento del lavoro di cura delle donne, dei lavori gravosi, dei lavoratori precoci. Manca del tutto un intervento strutturale teso a rafforzare un sistema previdenziale pubblico e solidaristico che salvaguardi i giovani e le donne, consentendo una contribuzione continuativa più solida.

Ma, al di là delle singole misure, è l’intera impostazione di questa manovra che ne evidenzia il tratto generale rivolto allo scardinamento del nostro sistema fiscale e redistributivo.

Una redistribuzione del reddito verso l’alto. Si continua a dare a chi ha già rendita e patrimonio anziché introdurre un’imposta sulle grandi ricchezze di tipo progressivo per sostenere l’aumento dei salari e dell’occupazione cosi come ha fatto il governo spagnolo.

E questo è sufficiente per definirla una manovra non sociale.

Se non si riequilibra la crescita del sud, non c’è futuro per il mezzogiorno, ma non c’è nemmeno speranza per l’intero paese.
Su questo dobbiamo rimettere insieme il blocco sociale del lavoro e farlo unitariamente per riaffermare la centralità del lavoro in Italia.

Noi siamo sindacato e continueremo a fare il nostro mestiere di sindacato che negozia e si mobilita e una prima risposta la daremo con gli attivi unitari del 21 e 26 novembre a Matera e a Potenza in cui presenteremo le nostre proposte per cambiare questa manovra, che abbiamo definito carente di una visione del paese e priva di un disegno strategico che sia capace di ricomporre e rilanciare le politiche pubbliche finalizzate allo sviluppo sostenibile e al lavoro.

Una manovra che non affronta alcuno dei problemi endemici dell’economia italiana: bassa crescita del PIL, la bassissima produttività, l’inefficienza della macchina amministrativa, l’affanno del sistema formativo nel tenere il passo della digitalizzazione, l’insufficiente tasso di occupazione: si ingrossano le file degli under 35 senza un impiego, -34mila unità, calo a cui si contrappone l’aumento dell’occupazione tra gli ultracinquantenni.

Calano ancora i contratti a tempo indeterminato, restano stabili quelli a termine. Questi i dati ISTAT a settembre 2018.
Segni evidenti di una continua precarizzazione del lavoro e di un cambiamento della struttura occupazionale italiana che nessun Governo si mostra all’altezza di affrontare e programmare con lo sguardo rivolto al futuro.

È altrettanto evidente che le diseguaglianze crescenti e una crisi economica che continua a manifestare segni di strutturalità, impongano con urgenza la costruzione di misure, parallele al rilancio e all’estensione dei diritti per chi lavora, che affrontino la tutela di una disoccupazione non volontaria, figlia di una precarietà disperata, che offrano una prospettiva ai giovani.

Su questi temi abbiamo raccolto 3 milioni di firme per la Carta Universale dei diritti e per i 3 referendum sull’abolizione dei voucher, la reintroduzione dell’art.18 e la responsabilità in solido. Una lunga mobilitazione non finalizzata a una semplice campagna referendaria, ma che mira a riunificare un mondo del lavoro frammentato e a rendere universali i diritti di tutti i lavoratori.

Di fronte a tanta precarietà e frammentarietà, quello che ci spaventa di più è la rassegnazione e il senso di abitudine a ciò che accade. L’incapacità di indignarsi e ribellarsi. La rinuncia a riqualificare il lavoro per renderlo più libero, più consapevole, più dignitoso, più sicuro.
Come si fa a rimanere inerti di fronte alla tragica emergenza che si chiama sicurezza sul lavoro? Sono stati 580 gli infortuni mortali dall’inizio dell’anno, 12 solo in Basilicata.
Queste morti non sono fatalità ricorrenti, ma frutto di sottovalutazione della stessa sicurezza, facile voce di risparmio per le aziende. Ma la vita e la salute dei lavoratori non possono diventare merce di scambio. Non si può morire di lavoro.

In questa condizione di regressione culturale il lavoro ha perso la sua dignità e la sua dimensione sociale e di umanità: lavoro nero, sub-appalti e cambi di appalto scaricano sempre sui lavoratori, sui loro diritti, sulla loro condizione salariale, gli effetti di scelte e responsabilità di impresa.

E anche qui, più che raccontare le tante vertenze aperte - da ferrosud, firema, Venum 3.0, e più in generale tutto il mondo degli appalti e dei servizi - penso sia necessario aprire una seria riflessione sul livello di abbassamento della qualità del tessuto imprenditoriale della nostra regione per provare a mettere in campo, con tutta la rappresentanza datoriale, un confronto a partire dalla definizione dei perimetri contrattuali per evitare che si affermino, nel nostro territorio, modalità concorrenziali tutte tese a una competizione sui salari e sui diritti.

La qualità dell’impresa, la sua etica e responsabilità non sono variabili indipendenti rispetto alla crescita del territorio e del suo sviluppo.

La Basilicata è una regione con ritardi e problemi che vengono da lontano. UNA BASILICATA PIU’ PICCOLA E PIU DEBOLE.

I dati demografici e i processi di migrazione del nostro territorio regionale negli ultimi venti anni, ci indicano una spaventosa tendenza alla decrescita della popolazione: lo 0,27% all’anno, una cifra enorme!
La Basilicata dei prossimi 25 anni conterà 89 mila abitanti in meno, attestandosi intorno ai 485 mila unità, con i cali più consistenti nelle classi di età inferiori e il contestuale aumento della popolazione anziana.

Il Mezzogiorno complessivamente, a quella data, conterà circa 2,4 milioni di abitanti in meno, mentre il complesso delle regioni del Centro-Nord registrerà un aumento di oltre 300 mila abitanti.
Questa resta la colpa più grave di una classe politica miope. Una grave responsabilità che rischia di lasciare ancora meno spazi di riscatto a una generazione esclusa dai processi economici, sociali e politici.
È la questione più rilevante. Ma va affrontata non solo raccontata.

Se non si inverte la tendenza e se non si immaginano politiche di difesa dei diritti primari in territori a decremento demografico, nel giro di pochi anni vedremo la chiusura di presidi scolastici e di presidi socio-sanitari.

 

 

In Basilicata potremmo assistere alla perdita di più di 500 classi, tra scuola dell’infanzia, primaria, secondaria di primo e di secondo grado. Negli ultimi dodici anni in regione si è registrata una riduzione di 15mila studenti, con una corrispondente flessione dei posti/cattedre.

Altrettanta preoccupazione desta la corrispondente situazione del sistema sanitario regionale, laddove gli squilibri in termini di offerta e integrazione delle funzioni assistenziali ospedaliere, territoriali e domiciliari, presentano maggiori criticità nelle aree interne, aree che nell’intero Mezzogiorno e in Basilicata ospitano il 35% della popolazione e il 70% dei Comuni.

In questo quadro bisogna muoversi subito per provare a invertire le tendenze più negative, ridando centralità istituzionale alla strategia per le aree interne, come abbiamo chiesto anche in occasione dello scorso I° Maggio a San Costantino Albanese, per consegnare una possibilità di sviluppo e rovesciare la tendenza allo spopolamento di queste fette di Basilicata e di Mezzogiorno.

 

Situazione economica Basilicata e legalità

Qualsiasi azione programmatica non può non partire dal bisogno di cambiamento.
Il Congresso è per noi momento di approfondimento al nostro interno ma anche occasione per misurarci e confrontarci sulle azioni programmatiche che intendiamo proporre.
La Basilicata di oggi è una Basilicata fragile, divisa, frantumata e senza una propria visione, senza un orizzonte, sfiduciata nelle sue istituzioni e nella loro credibilità.

 

Il titolo di questo nostro 12° congresso regionale ri-evoluzione, sta proprio a evidenziare un arretramento economico e sociale, rispetto a un tempo più o meno recente in cui siamo stati protagonisti dell’evoluzione economica e sociale, assumendoci – tutti - la responsabilità di riforme e di innovazioni strutturali: dalla sanità, alla governance, agli accordi sulle nostre risorse naturali, a difesa del territorio da azioni nazionali dirigiste (vedi Scanzano), dentro una grande coesione sociale e democratica tra istituzioni e cittadini.

Ed è proprio questo il tratto da cui provare a ripartire. Ripartire per ri-evolverci, per restituire alla Basilicata quel profilo di coesione, mettendo al centro la ricostruzione del patto che si è rotto tra cittadini, istituzioni e forze politiche democratiche e progressiste, ricominciando da una nuova pratica ed azioni. Azioni chiare, leggibili, partecipate, per costruire insieme a tutti i lucani la Basilicata di domani.

Ho scelto di non ripercorre tutte le vicende, le vertenze, le denunce, la stranezza di questo tempo e la schizofrenica modalità di relazioni sociali con cui il governo regionale si è mosso in questa legislatura, disperdendo un patrimonio di relazioni con le parti sociali costruite negli anni.

Molte cose fatte sono nella memoria di tutti noi e anche nelle pagine della storia di questi anni, nei quali abbiamo provato in più occasioni, con Cisl e Uil, a riportare al centro dell’azione di governo le questioni del lavoro: a partire dal piano del lavoro del 2013, abbiamo continuato a costruire partecipazione ed elaborazione con Basilicata 2020, con il Piano Unitario del 2016, la Marcia della Cultura, per collocare Matera 2019 al centro della delle politiche di sviluppo regionale.

Abbiamo registrato, in questi anni, una chiusura al confronto. Chiusura tanto più stridente alla luce della grande marcia per il lavoro del 9 aprile del 2016: 10 mila lucani hanno dato vita, con CGIL, CISL e UIL, alla più grande mobilitazione dei tempi recenti.

Quando si rimuove partecipazione e confronto, quando la proposta politica è affidata ai funzionari e ai direttori generali delle aziende sanitarie che si ergono a decisori politici proprio per l’assenza della politica, è evidente che si arriva allo sfaldamento del bene più importante che abbiamo e che con molta fatica era stato costruito: la sanità lucana delle eccellenze.

In questo scenario, i limiti e le responsabilità che hanno caratterizzato questa legislatura sono emersi in tutta la loro drammaticità: dalle mancate parifiche di bilancio, alle vicende giudiziarie che hanno portato all’arresto dei vertici della Regione e della sanità lucana.

Sul sistema di illegalità diffusa che attraversa questa regione aveva già acceso i riflettori la Relazione del Procuratore nazionale Antimafia, ospite nella nostra piazza alla scorsa edizione delle Giornate del Lavoro, evidenziando quanto questa regione sia schiacciata nella sua strutturale brevità di relazioni e quanto la criminalità stia sviluppando una sempre più forte capacità di intrecciare rapporti con amministratori pubblici e politici locali, pronta a fare un "salto di qualità verso un pieno inserimento nell'economia locale".

Di fronte a fatti e atti che si stavano consumando nella sanità lucana, atti illegittimi e frutto di un degrado etico e morale che si stava sempre più radicando, abbiamo compiuto la scelta, forte e per noi inusuale, di denunciare attraverso un esposto in Procura le illegalità che avevamo ravvisato.

Lo abbiamo fatto non solo per preservare la legalità attraverso la correttezza formale, ma perché siamo convinti che non si possa rimanere inerti di fronte ad azioni che, con ostentata perseveranza, vengono reiterate a beneficio di qualcuno solo perché si è reso funzionale a un sistema costruito in danno di noi tutti.

Si è trattato di un’azione che ha fatto emergere un sistema di corruttele nel quale si sono saldate pratiche clientelari nei concorsi e negli appalti che, oltre ad aver messo in evidenza tutta la permeabilità al potere politico della classe dirigente amministrativa regionale, delle aziende sanitarie, delle partecipate pubbliche, ha provocato un grande danno ai lavoratori e alla loro condizione.

Ecco, occorre ripartire, ri-evolvere la nostra regione assumendo la centralità degli interessi generali della comunità lucana. Serve costruire visione e coesione, un nuovo entusiasmo che sappia restituire progetto e speranza al territorio.
C’è bisogno di ricostruire un terreno valoriale, di separazione dei poteri tra quello amministrativo-gestionale e quello politico.

Occorre, prima di ogni altra azione, mettere al centro delle priorità la Riforma e la riorganizzazione della macchina amministrativa regionale, assumendo la meritocrazia e la competenza quali cardini per la valorizzazione del personale esistente e per l’accesso alla pubblica amministrazione.
Serve un Piano di assunzioni affinché si apra una fase di ricambio generazionale.
Concorso unico distinto per profili professionali per mettere fine agli scorrimenti di graduatoria pilotati, ma anche per uscire dalla situazione paradossale, tutta lucana, per cui da circa 15 anni non si riesce a bandire un concorso pubblico.

Questo significa chiudere con la stagione dei nominati e cooptati e aprire una nuova fase per dotarsi di professionalità e competenze per rafforzare l’azione pubblica, ma anche per consegnare ai giovani lucani l’idea che sia possibile rimanere in Basilicata e che sia un valore il merito e non l’appartenenza e la conoscenza politica.
Non potrà esserci nessuna azione di sviluppo se non sapremo ricostruire, nelle funzioni pubbliche, competenze, qualità, legalità e trasparenza.
Parto da qui, dalla convinzione maturata in questi anni di impegno sindacale, in cui ho potuto constatare quanto sia ormai scaduta la classe dirigente pubblica nella nostra regione, svilita, piegata alle logiche di filiera, e soprattutto privata di autonomia, competenza e responsabilità.

La struttura amministrativa dipartimentale della Regione Basilicata, un tempo fiore all’occhiello del sistema pubblico lucano, è oggi destrutturata, non solo per effetto di una organizzazione ancora improntata su funzioni e compiti profondamente cambiati, ma anche e soprattutto per il continuo ricorso di natura “fiduciaria” e, in assenza di selezioni, a collaborazioni esterne che hanno di fatto mortificato e demotivato le tante professionalità esistenti nell’Ente.

Si rischia la completa paralisi gestionale, tra un dipartimento sanità ridotto a sacrestia delle aziende sanitarie in cui si fa fatica a mettere in atto le varie politiche di programmazione del sanitario e del socio assistenziale, e altri dipartimenti titolari di funzioni centrali nelle attività regionali: dai fondi comunitari, alle attività produttive e lavoro, alle infrastrutture, all’agricoltura, all’ambiente, ormai in letargo.

Occorre assumere, quale questione prioritaria, la riorganizzazione della governance complessiva degli enti regionali e sub regionali, ridelineando l’assetto funzionale attraverso l’attribuzione delle sole funzioni di programmazione e controllo all’ente regione e decentrando le funzioni gestionali al territorio, attraverso la costruzione di enti intermedi sul modello delle aree vaste, per dare non solo migliore efficacia all’azione programmatoria e gestionale, ma anche per restituire centralità al territorio.

 

La Basilicata ha tante potenzialità da mettere a valore e a sistema con un programma di sviluppo che indichi i settori in cui investire, infrastrutture, mobilità sostenibile, cultura e turismo, innovazione, transizione energetica, welfare, istruzione, cura del territorio, agricoltura e aree interne, ambiente.
Potenzialità sulle quali costruire una condizione propria di sviluppo nel Mediterraneo, prospettiva rispetto alla quale le Zes rappresentano un punto cruciale.

Una grande occasione su cui concentrare azioni, investimenti e programmazione regionale che rappresenta uno snodo cruciale non solo per la zona industriale di Ferrandina ma per tutta la Basilicata, perché significa logistica, scambi commerciali, filiere agroalimentari, e un incentivo alla capacità di internazionalizzare per le imprese lucane e del sud.

In quest’ottica va affrontato il tema delle infrastrutture e della mobilità. Connettere territori e persone deve essere la priorità delle priorità su cui investire per colmare uno dei punti più condizionanti dell’intero sistema di sviluppo e anche di cittadinanza.

La marginalità di molte aree del territorio lucano e la distanza da poli urbani e trasportistici importanti non consente la diffusione degli effetti “corridoio” alle aree più interne della regione.

Reti e infrastrutture rappresentano lo snodo su cui concentrare le macro-azioni di sviluppo per poter completare e costruire un sistema integrato di mobilità del nostro territorio che presenta ritardi atavici. Basti pensare che le nostre principali infrastrutture risalgono agli anni 70.

Un piano dei trasporti datato e inadeguato e non rispondente ai mutati bisogni di mobilità.

120 milioni di euro di spesa per una mobilità ancorata a una pianificazione risalente agli anni 80, bloccata perché ostaggio di un sistema di proroghe tese a difendere una governance monopolistica dalla quale bisogna uscire, riprogettando un sistema pubblico di trasporto rispondente ai nuovi bisogni di mobilità delle persone dentro un piano straordinario di investimenti nelle infrastrutture in grado di rompere l’isolamento delle aree interne e di costruire o ridisegnare nuovi assetti sulle linee di agglomerazione delle realtà produttive più importanti.

Il che vuol dire puntare almeno al rafforzamento della piattaforma territoriale strategica Napoli-Bari, dunque il Corridoio Bradanico che collegherebbe la Murgia-Pollino con il nodo autostradale di Candela (intersezione tra la A16 e la Potenza-Melfi-Foggia); la Matera Ferrandina, poi ancora il rafforzamento della piattaforma interregionale Salerno-Potenza-Taranto che si sviluppa sostanzialmente lungo il corridoio Basentana.

 

PETROLIO
La Basilicata non può prescindere da un modello di sviluppo che faccia della sostenibilità ambientale la precondizione di qualsiasi attività industriale.
A oggi è invece evidente un preoccupante quadro di vulnerabilità ambientale del nostro territorio.

Il petrolio in Basilicata rappresenta una risorsa tendenzialmente conflittuale con le altre risorse endogene di immediato utilizzo. I vantaggi che derivano dallo sfruttamento del petrolio investono soprattutto le compagnie, gli impatti e i rischi investono invece i territori in cui hanno luogo tali attività.

Ecco perché è necessario ricomporre un sistema di monitoraggio e controllo ambientale che tutt’oggi rappresenta un mosaico dalle tessere troppo scomposte, come è chiaramente emerso con le perdite di greggio dai serbatoi del centro Olio Eni di Viggiano. Eppure l’Eni non svolge attività estrattiva solo in Basilicata.

È il momento di costruire e aggregare intorno alle questioni ambientali una filiera di ricerca e controlli che trovi nel sistema pubblico la sua ragione.
Una rete tra enti regionali che segua una programmazione di attività coerente con l’obiettivo di ridurre i rischi ambientali delle industrie che in Basilicata hanno il maggior impatto con il territorio.

Nei prossimi anni potremo disporre di ingenti risorse derivanti dalle royalties, 250 milioni l’anno; si inizi sin da ora a decidere che tali risorse saranno vincolate a un fondo specifico, destinato a misure di investimenti per lo sviluppo, per creare lavoro.

Deve essere chiaro a tutti che la questione petrolio non potrà essere trattata più nel modo in cui si è operato in questi anni.

Come ho sottolineato, occorre prima di tutto assumere il tema di dare strutturalità al nostro complesso sistema di controlli ambientali, partendo dalla consapevolezza che le attività industriali, affinché si possano sviluppare e creare benessere occupazionale e sociale, devono svolgersi nel pieno rispetto dell’ambiente e della sicurezza dei lavoratori e del territorio.

Va aperta una nuova contrattazione con il governo, regione, sindaci e imprese per riscrivere un nuovo accordo con Eni e Total in cui lo scambio non potrà essere solo fondato sulle royalties, ma sull’impegno a realizzare un piano di investimenti in termini infrastrutturali, a creare nuova occupazione in settori diversi da quelli legati alla mera attività estrattiva per tracciare da subito una chiara prospettiva di transizione energetica.

Possiamo e dobbiamo da subito iniziare da quello che dipende da noi per restituire futuro a questo presente.
E un futuro al nostro presente è sicuramente anche legato all’automotive, settore di grande valenza per la nostra regione. Melfi può diventare la piattaforma di tutto il settore nazionale e internazionale della componentistica dell’auto, se solo se ne assume la centralità attraverso chiare politiche di investimento e ricerca, coinvolgendo università e CNR della nostra regione e di altri territori.

Dinanzi a noi abbiamo il tema dell’innovazione. Innovazione che non riguarda solo il settore industriale ma l’insieme della componente lavoro.
Tutto questo è premessa di sviluppo, in un incrocio straordinariamente generativo con l’economia della conoscenza.

Cultura e turismo, anche grazie a Matera 2019, sono diventati una grande opportunità da cogliere in tutta la sua straordinaria potenzialità.
Matera 2019, al di là dei ritardi e delle cose fatte, va assunta quale priorità di tutta la regione come attrattore della cultura mediterranea in cui mettere a circuito l’intero mezzogiorno.

Queste per noi le priorità, insieme alla costruzione di un nuovo modello di sviluppo sostenibile che si misuri con i cambiamenti sociali ed economici e che sappia trasformare i bisogni sociali della cura, come elementi di civiltà ma soprattutto di opportunità di sviluppo.

Questo significa investire nel welfare, istruzione e sapere, in una visione diversa e nuova, concentrando le risorse comunitarie e utilizzando anche la leva fiscale per costruire infrastrutture sociali. Infrastrutture capaci di consentire crescita culturale e di civiltà sociale e che, nel contempo, diventino un moltiplicatore occupazionale rispetto alle risorse investite.

Siamo infatti consapevoli che operiamo in un contesto di risorse sempre più limitate.
Ed è per questo che si rende necessario riorganizzare tutto il sistema dei servizi in funzione delle rinnovate dinamiche sociali. In questi decenni la nostra società si è trasformata e, contestualmente, si è modificata anche la domanda di salute.
L’aumento della speranza di vita, però, pone nuove sfide legate all’invecchiamento della popolazione. Condizione che deve rappresentare una risorsa su cui investire, non un problema.

Il territorio è per noi uno dei pilastri fondamentali della sanità, ma i processi di riorganizzazione dei servizi hanno comportato interventi sbilanciati sul fronte del riordino delle reti ospedaliere, piuttosto che sulla medicina di iniziativa e di prossimità.

Per questo è necessario superare la legge di riordino regionale varata nel 2017, una riforma non riforma che, senza affrontare i bisogni di salute dei lucani, si limita a far quadrare i conti sulla carta modificando la titolarità giuridica dei vari presidi ospedalieri e territoriali.

I risultati di queste scelte sono sotto gli occhi di tutti, tra presidi ospedalieri territoriali in stato di completo abbandono, liste di attesa che si allungano negando di fatto il diritto alla salute, e una mobilità sanitaria passiva in continuo aumento che è il segno tangibile della percezione che i lucani hanno del nostro sistema sanitario regionale.

E tutto questo deriva dalla mancanza di una programmazione orientata ai fabbisogni e alla domanda di salute e dalla carenza e inadeguatezza delle strutture e dei servizi che non garantiscono più un accesso universale alle cure e rischiano di far scivolare la nostra sanità sempre più in basso.

È necessario ridefinire un nuovo equilibrio tra l’assistenza ospedaliera e quella territoriale, accompagnata da un’appropriata allocazione delle risorse anche a sostegno delle cure primarie e dello sviluppo delle reti integrate di servizi per affrontare la crescente domanda di cure e di assistenza verso le cronicità, la riabilitazione e le cure intermedie, aree in cui il bisogno è in crescita.

Se solo saldassimo il deficit di offerta dei servizi di cittadinanza con il resto del paese, in Basilicata da subito si potrebbero creare 10 mila posti di lavoro, lavoro dignitoso e retribuito facendo emergere il grande sommerso che c‘è e che nessuno vuole vedere.

La grande domanda di cambiamento necessita di una risposta che tenga insieme i bisogni delle persone con l’esigenza di uno sviluppo di lungo periodo. Questa risposta non può che essere la creazione di lavoro, accompagnata in parallelo da misure di inclusione e contrasto alla povertà che sappiano dare risposte immediate ai bisogni di chi è stato travolto dalla crisi.

 

Su questo in Basilicata abbiamo dato vita, insieme a CISL e UIL, a una esperienza innovativa. Mi riferisco all’accordo sul reddito di inserimento sottoscritto il 2 dicembre del 2014, accordo frutto della nostra ostinazione, della nostra lotta, della nostra proposta. Un risultato straordinario, talvolta sottovalutato.

Abbiamo rovesciato l‘idea di una distribuzione a pioggia di risorse, quelle della carta carburante, facendo una vera operazione di redistribuzione della ricchezza che ha generato un fondo di circa 70 milioni di euro all’anno destinati allo sviluppo e all’inserimento lavorativo.
Fino a qualche settimana fa siamo stati impegnati per definirne criteri e modalità di attuazione.

Spero si sappia guardare fino in fondo alle potenzialità di questo accordo per riprogettare le politiche di cura del territorio e guardare a questo settore quale parte strategica di una nuova politica di prevenzione e messa in sicurezza contro il rischio idrogeologico, ma anche come politica di sviluppo.

Senza manutenzione e senza cura del territorio – ritenute colpevolmente attività poco importanti - staremo ancora a contare le tragedie di questo paese. Si preferisce continuare a pensare il lavoro forestale come azione assistenziale, lavoro di serie B. Va invece cambiato approccio e paradigma ridando priorità e centralità a questo settore, perché investire risorse in cura e pianificazione significa investire sul futuro del paese, significa salvare vite umane, significa creare lavoro.

Queste alcune valutazioni che offriamo alle forze politiche perché per noi, questo significa occuparsi della Basilicata e non occuparla. Significa ridare autorevolezza alle funzioni di governo.

Il rischio di uomini soli al comando è sempre dietro l’angolo e a volte, consapevolmente o inconsapevolmente, anche da parte di chi ha combattuto tale pratica.
Non ci sono emissari del popolo ma classe dirigente che sa ascoltare. C’è bisogno di ascolto e di partecipazione per spostare l’asse e riconquistare la fiducia di chi ha più bisogno di protezione.

Serve un grande progetto per la Basilicata da qui ai prossimi anni, avendo come orizzonte l’Europa, la riprogrammazione dei fondi comunitari, e decidendo già ora interventi per l’attuale e la prossima programmazione.

Interventi che non devono essere sommatoria di strumenti, ma Piani attuativi di un più generale piano del lavoro:
a) un grande progetto per l’inclusione, a partire dal rafforzare, meglio strutturare e mettere a sistema il progetto sperimentale appena avviato del reddito di inserimento legato a prestazioni di utilità sociale, a momenti di reale formazione spendibile sul mercato, a progetti di solidarietà , ma soprattutto dentro una visione più generale di riforma e potenziamento dei nostri centri per l’impiego, sapendo che ci sono già risorse disponibili che non vengono utilizzate;
b) un grande progetto per un modello di welfare che riattivi spesa pubblica nel sociale, alimentando il lavoro che si può creare nell’assistenza territoriale e domiciliare, nella creazione di case della salute diffuse, negli asili nido, in offerta scolastica aperta al territorio, ecc.;
c) un grande Piano del Lavoro fatto di potenziamento della forestazione in chiave produttiva, di interventi sul ciclo integrato dei rifiuti e sul riciclaggio, con una strategia dedicata alla rottura dell’isolamento infrastrutturale lucano scegliendo 1-2 opere pubbliche fondamentali, con interventi di politica industriale mirata su agro industria, mobilità sostenibile, ricerca applicata all’energia e alla “nuova edilizia”.

Su questo vanno operate le scelte. Perché dalle scelte, dalla qualità e capacità della spesa, si potrà aprire una nuova stagione, concentrando tutte le risorse ordinarie, comunitarie, legate al petrolio in un grande piano di sviluppo .

Queste le proposte, che non sono solo patrimonio della Cgil ma anche di Cisl e Uil con le quali in questi anni abbiamo provato a tracciare un’idea comune di Basilicata.

Perché mai come oggi occorre un grande sforzo di unità e responsabilità, per l’Italia e per la Basilicata un nuovo patto sociale tra le forze migliori del lavoro, dell’impresa, dell’associazionismo, della cultura, in una sorta di campagna per il Rinascimento sociale, economico e democratico delle nostre comunità.

IL CONFRONTO SERVE! Serve alla politica, non per frenare le scelte che è deputata a fare, ma per aumentare l’efficacia della propria azione nel compito difficile della costruzione del consenso. Noi non siamo banalmente portatori di interessi, ma interpreti dei bisogni sociali che incontriamo nei luoghi di lavoro e nei territori dove siamo ben radicati.

Il voto del 4 marzo ha cambiato il volto del nostro paese. La Lega e il Movimento 5 Stelle governano insieme. La Lega è una forza secessionista e razzista, che intrattiene rapporti con formazioni di estrema destra.
Entrambi attaccano il nostro ruolo, sono portatori di un sistema di disintermediazione.

La Cgil non si farà intimorire. Resterà un baluardo contro il razzismo e la discriminazione di ogni genere. Resterà una forza profondamente antifascista, con una visione di paese e di Europa capace di governare i grandi mutamenti in atto in una direzione inclusiva e democratica. Il sindacato, confederale e unitario, deve farsi carico della tenuta sociale e democratica.

 

Infine, non possiamo non parlare di noi.
La CGIL sta affrontando un momento delicato, una fase per tanti versi inedita.
Abbiamo assistito in queste settimane ad una rappresentazione caricaturale della nostra organizzazione, destra e sinistra, Pd , 5 stelle , popolo e burocrazia.

Serve responsabilità, e responsabilità significa ricondurre il tutto alle regole, nei modi e nei tempi per costruire le condizioni per una sintesi unitaria. il percorso per l’elezione del prossimo Segretario generale sia pienamente ricondotto nelle sedi proprie , assicurando libero confronto e pluralismo nell’alveo della lunga storia democratica della nostra organizzazione.

Abbiamo opinioni differenti, ma sapremo trovare un punto di sintesi.

Il futuro Segretario Generale sarà il nostro segretario generale. Non ho dubbi, lo sarà per tutti e non per una sola parte!

Sappiamo bene che la strada da percorrere è lunga.
Una lunga marcia piena di insidie.
Ma sappiamo anche che è un cammino che dobbiamo percorrere. La strada del bene comune. La strada del lavoro e dei diritti, La strada delle pari opportunità.
Una lunga marcia, dunque. Ma, come diceva Lao Tzu, antico filosofo cinese, ANCHE UN VIAGGIO DI MILLE MIGLIA COMINCIA SEMPRE CON IL PRIMO PASSO.

Viva le lavoratrici e i lavoratori. viva la CGIL